martedì 22 novembre 2011

La Vecchina e la Pentola di Terracotta

Liguria
Molto molto tempo fa in un paesino della Liguria viveva una vecchina. Era sola, non aveva parenti o amici, né un cane o un gatto, nemmeno un pappagallo o un canarino. Divideva la sua vecchia casa con una pentola di terracotta, una di quelle che fabbricano nei dintorni del suo paesino vicino a Genova. L’aveva sempre utilizzata con molto amore, riempiendola solo di cose buone e lavandola sempre con molta cura dopo l’uso, La pentola ricambiava le sue attenzioni cucinando sempre cibi squisiti e standole vicina quando si sentiva sola. Era il suo modo di volerle bene.



 Un triste giorno la vecchina si accorse di non avere più niente da mangiare. Lo disse alla sua amica pentola di terracotta con molta tristezza. “Mi dispiace pentolina cara, ma non abbiamo più nulla da cucinare. Ti metterò sullo scaffale più alto della mia credenza. Non posso fare altro per te.



“ Ma io non voglio assolutamente finire i miei giorni così giovane e in cima ad un armadio. E che ne sarà della mia vecchina se l’abbandono adesso?” Pensato e fatto. La pentola di terracotta scese dallo scaffale più alto della credenza, Infilò la porta e andò a cercare fortuna nei dintorni.
Non molto lontano dalla sua casa vide una donna chinata in un campo di pomodori. Li coglieva accuratamente uno per uno e li metteva in un fazzoletto. La pentola si mise per terra vicino a lei e se ne stette lì tranquilla.
 “Guarda che bel recipiente pulito! Ci metterò dentro i miei pomodori.” E cominciò a fare come aveva detto. Quando la pentola pensò che ce ne fossero abbastanza, piano piano, senza farsi notare, se ne andò e tornò alla casa della vecchina. Quando questa si accorse dei pomodori ne fu felice. 



Ne fece una salsa squisita che diede in parte alla sua vicina che coltivava carote e in parte a un altro vicino che aveva una mucca. La prima le diede tante carote e il secondo del latte per la colazione.
Ma dopo un po’ di tempo, quando le carote, il latte e i pomodori furono finiti, la vecchina e la sua pentola si ritrovarono al punto di partenza: . “Mi dispiace pentolina cara, ma non abbiamo più nulla da cucinare o da mangiare. Ti metterò sullo scaffale più alto della mia credenza. Non posso fare altro per te.”
“ Ma io non voglio assolutamente finire i miei giorni così giovane e in cima ad un armadio. E che ne sarà della mia vecchina se l’abbandono adesso?” Pensato e fatto. La pentola di terracotta scese dallo scaffale più alto della credenza, Infilò la porta e andò a cercare fortuna nei dintorni.
Questa volta la pentola si diresse nella direzione opposta. Non lontano da lì c’era un orto grande e molto ben curato. Nell’orto c’era un contadino che stava raccogliendo delle belle verdure. La pentola si mise per terra vicino a lui e se ne stette lì tranquilla.
Il contadino la vide e disse: “Guarda che bel recipiente pulito! Ci metterò dentro le mie verdure”. Quando la pentola pensò che ce ne fossero abbastanza, piano piano si allontanò e tornò alla casa della vecchina.


Figuratevi la gioia! Con quella verdura ne ebbero per un bel po’ di tempo: la vecchina tagliò la verdura, fece una bella minestra, tante patatine, una bella insalata con pomodori e rapanelli e tante altre cosine buone. Con tutto quel ben di Dio ne ebbero per parecchi  giorni.
Ma anche quel ben di Dio finì e…  “Mi dispiace pentolina cara, ma non abbiamo più nulla da cucinare o da mangiare. Ti metterò sullo scaffale più alto della mia credenza. Non posso fare altro per te.”
Indovinate cosa…  La pentola, ancora prima di essere messa sullo scaffale alto della credenza infilò la porta e si diresse da una parte diversa da quella delle altre volte. Non trovò nessuno che raccoglieva pomodori  o verdure e stava per tornare sconsolata a casa quando vide un uomo con fare sospetto che stava scavando una buca in un campo. Si avvicinò incuriosita e si accorse che l’uomo voleva sotterrare un gruzzolo di monete d’oro. Come le altre volte si avvicinò e si mise tranquilla lì vicino.

“Guarda che bel recipiente pulito! Ci metterò dentro le mie monete. Così non si sporcheranno e nessuno le troverà.”
Mise tutte le monete (che non erano poche) nella pentola. Scavò ancora un po’, poi si dimenticò di seppellire la pentola e se ne andò allegramente.
La pentola se ne stette un po’ ferma. Poi, quando fu ben sicura che l’uomo se ne era andato, piano piano si allontanò, e tornò a casa.

Quando la vecchina la vide tornare fu ben contenta e si preparò a cucinare altri piattini squisiti. Ma quale fu la sua sorpresa quando vide le monete d’oro! 



 Ne prese una e andò subito al piccolo negozio di alimentari del paese, comprò tante cose buone e detto fatto tornò al suo vecchio lavoro.


 E la sua dispensa si riempì di nuovo di tanti cibi appetitosi.




La donna dei pomodori da quel giorno ebbe sempre tanti frutti nel suo giardino, anche fuori stagione. Il contadino da quel giorno lavorò la metà di prima e raccolse il doppio di verdure. Il ladro non ritrovò mai le sue monete, ma fu un bene perché, quando andò la polizia a cercarlo, non trovò nessuna prova del furto né in casa né nel giardino e lo lasciò tranquillo. A lui venne una gran paura e giurò di non rubare mai più niente. Quanto ai vicini, ebbero carote in abbondanza l’una, e tanto latte da aprire una latteria, l’altro.


Le monete durarono per molto tempo, abbastanza per la vecchina e per la sua pentola di terracotta, che vissero felici e contente tanti tanti anni ancora.


In paese tutti si domandano ancora oggi come tutte queste belle cose siano successe in così breve tempo. Ma solo voi e io sappiamo che è stata la Pentola di Terracotta. 











Anna e il Principe



La nostra storia comincia in due luoghi diversi, ma entrambi bellissimi: lo stagno di Santa Caterina e le saline di Carloforte. Siamo in quella terra meravigliosa che si chiama Sardegna.

Nello stagno di Santa Caterina viveva un bellissimo fenicottero. I suoi genitori l’avevano chiamato Efisio, ma lui si faceva chiamare “Principe”. E’ vero che era bellissimo, ma si dava tante di quelle arie che nessuno lo poteva più vedere. Si pavoneggiava nello stagno dalla mattina alla sera, quando camminava sulle lunghe zampe faceva attenzione a fare dei passi perfetti mettendo una zampa davanti all’altra e tirando le punte come una ballerina. Era poi convinto che in posizione di riposo, con la zampa alzata e piegata, era il più bel fenicottero dell’universo.


Quando diventò adulto, sempre più tronfio e pieno di sé, e venne il momento di trovare una compagna, il problema si pose in modo drammatico: tutte le fenicottere lo trovavano bellissimo, facevano a gara per farsi vedere a spasso con lui nello stagno o gli si avvicinavano quando era in volo per farsi fotografare dai turisti di passaggio appostati sulle rive. Ma a creare una famiglia con lui non ci pensavano proprio: lungi da loro l’idea di dare un simile padre alla loro discendenza!...

Anche nelle saline di Carloforte c’è una colonia di fenicotteri. Erano tutti una grande famiglia ed erano molto uniti. Anticamente passavano la loro estate in Liguria, nella zona di Pegli, ma con i cambiamenti climatici e l’urbanizzazione di questo secolo avevano preso l’abitudine di fermarsi nell’isola di Carloforte.

In questa colonia viveva Anna, una fenicottera come le altre, ma molto sveglia e intelligente. Gli altri fenicotteri avevano preso l’abitudine, quando avevano un problema, di chiedere consiglio a lei: Anna accoglieva tutti con grande gentilezza, sempre sorridente, dava i suoi consigli senza mai far pesare la sua grande capacità e le sue conoscenze. La sua fama era arrivata fino allo stagno di Santa Caterina e i genitori di Efisio, disperati di vederselo sempre intorno e senza famiglia, si recarono da Anna per chiedere consiglio. Lei li accolse con molta cordialità, si fece spiegare bene la situazione e chiese qualche giorno per riflettere: una simile situazione non le era mai capitata.

Qualche giorno dopo i fenicotteri di Santa Caterina si alzarono in volo: erano tutti d’accordo e quando sorvolarono le saline di Carloforte si confusero con i volatili di quella colonia, anche loro d’accordo con Anna, e senza che se ne accorgesse Efisio si trovò in mezzo a loro e fu costretto ad ammarare nella loro zona. 


Lì nessuno lo conosceva e i carlofortini fecero finta di non vederlo nemmeno. Se lui si avvicinava ad un gruppo loro volavano via. Se tentava di farsi ascoltare, facevano finta di non capire la sua lingua, se tentava di alzarsi in volo per tornare a casa sua gli altri uccelli gli facevano tanta confusione intorno che non trovava la direzione giusta. Efisio dovette anche abituarsi a pescare per procurarsi il cibo, cosa che non aveva mai fatto fino ad allora. Un giorno, inesperto com’era, tentò di “pescare” addirittura un tonnetto che, niente affatto d’accordo per diventare la sua cena, gli dimostrò chiaramente il suo dissenso addentandogli la zampa che di solito piegava sotto di sé. La zampa gli rimase un po’ storta da quel momento ed Efisio cominciò a rendersi conto che non era poi così bello e che doveva imparare a convivere con gli altri e ad adattarsi alla quotidianità. Quanto ad Anna, tutto sommato Efisio lo trovò bello davvero e vederlo così in difficoltà le faceva pena: ma aveva preso un impegno con i genitori del Principe e lo portò a termine. Solo quando lui venne da lei e le chiese umilmente come doveva fare a tornare a casa, ormai rinsavito dalle sue manie di grandezza, il suo compito era finito.


Anna riaccompagnò Efisio nel suo Stagno. E qualche giorno dopo Efisio tornò a Carloforte per chiederle se voleva diventare la mamma dei suoi futuri piccoli. Anna accettò, anche se non era abitudine del suo stormo creare famiglie con estranei. E da allora le cose vanno benissimo: Efisio, quando si sente qualche velleità di arie, guarda la sua zampa rimasta un po’ storta e si rimette sulla dritta via. Tutti i fenicotteri, sia quelli dello stagno che quelli della salina, quando vedono i propri cuccioli darsi un po’ di arie, raccontano loro la storia del Principe e tutto rientra nella norma.

Le foto che avete visto in queste pagine vengono tutte dai luoghi di cui abbiamo parlato e dalla zona di Cagliari e di Carbonia. Se volete vedere i fenicotteri come li ho visti io, andate in Sardegna: nuovi amici vi aspettano per farvi vedere questa e tante altre bellezze di quest’isola da sogno.

Cane


Storia vera

Venerdì sera, tornando a casa ero veramente stanca. Ambrogio, il mio capo, ha parcheggiato la macchina proprio davanti a casa ed io mi apprestavo a caricarmi di sacchetti del supermercato per entrare: come al solito ho dato un’occhiata in giro e vicino ad un gruppetto di persone che parlavano ho notato un cane marrone, abbastanza grande, che girovagava. Era un labrador.

Quando mi ha visto ha attraversato la strada e, a rischio di farsi investire da una macchina che passava, è venuto a farmi le feste. Ci sono abituata, credo che i cani sappiano chi li ama e chi no, e spesso incontro cani che mi fanno le feste anche senza conoscermi: abbiamo un “feeling”. Ma questo aveva qualcosa di strano, si guardava intorno, andava a sniffare tutte le macchine parcheggiate, correva di qua e di là senza meta. Ho capito che si era perso.



Quando mi sono mossa per entrare a casa, il cane mi ha seguito, è entrato nel giardino e poi, quando ho aperto la porta di casa è entrato ed è andato diretto in cucina. Gli ho messo subito una ciotola perché bevesse, se aveva sete, e ho cominciato ad osservarlo. Ambrogio lo ha accolto molto bene, era anzi preoccupato per lui. Naturalmente ho subito telefonato ai Carabinieri, ma i cani non sono di loro competenza e mi hanno detto di chiamare i vigili. “Se ci porta qui il cane, mi hanno detto, dobbiamo trasferirlo al canile e quello più vicino le assicuro che non è un posto piacevole…”

L’unica soluzione era ospitare il mio nuovo amico in attesa di  tempi migliori.



Così gli ho preparato un bel piatto di pasta con la carne, che ha mangiato con gusto, gli ho spiegato che per quella sera non potevo fare altro per lui e che stesse tranquillo, che l’indomani avremmo cercato e trovato il suo padrone. Poi ci siamo messi a guardare la TV. Più tardi è tornata dal lavoro anche Anna, mia figlia, e il cane le è andato incontro e le ha fatto un sacco di feste: a momenti le saltava in braccio! Le ha leccato tutta la faccia, mordicchiato le mani e le ha dimostrato tutta la sua simpatia. Devo dire che anche lei ama molto i cani. Si è subito preoccupata perché non sapeva come chiamarlo, ma indovinare il suo nome era un’impresa troppo complicata: io lo chiamavo “Cane” e lui rispondeva e obbediva molto bene. 

Dopo una breve passeggiata ho spiegato a Cane che era ora di andare a dormire. Lui si è messo in un punto strategico ai piedi della scala, si è sdraiato quasi per spiegarmi che aveva capito e che potevo andare a dormire tranquilla anch’io.



L’indomani mattina sono andata dai vigili. Sono stati molto contenti che avessi ritrovato Cane la cui scomparsa era stata segnalata: si era spaventato per un forte tuono ed era scappato di corsa da casa sua. “La sua padrona è una signora anziana che si dispera di averlo perso, e lo sta cercando dappertutto…” mi hanno dato il suo indirizzo e l’ho riportato a casa sua, con gran dispiacere: era così affettuoso che me lo sarei tenuto volentieri.

Domenica mattina la sua padrona è venuta a portarmi un vaso di bellissimi fiori per ringraziarmi. C’era naturalmente anche Cane che mi ha fatto molte feste.

  
Ah! Dimenticavo di dirvi che è una femmina e che si chiama Ortensia. E i fiori che la padrona di Cane mi ha portato erano ortensie.    

lunedì 14 novembre 2011

La famiglia Topiniz

C’era una volta in un paese lontano una famiglia di topini che viveva in una bella tana. La mamma Topiniz la teneva sempre pulita, specialmente la cucina dove preparava pasti squisiti per il topino capo famiglia e per i topini figli, sette, sempre allegri e pronti ad aiutare la mamma e il babbo. Erano proprio dei bravi topini e mamma e papà erano molto orgogliosi di loro.

La mattina, quando si svegliavano, il papà usciva per raccogliere bacche e altri cibi prelibati (per dei topini, naturalmente!) e i piccoli per andare a giocare all'aria aperta se era una bella giornata. L’unico problema li aspettava fuori dalla loro bella tana: tutti gli animali li prendevano in giro.
“Che brutti!, diceva la gigantesca mucca, così piccoli e inutili”.


“Che brutti e che piccoli”, diceva un’oca che viveva nei dintorni. (“Ma si è mai vista nello specchio?, diceva fra sé e sé Mamma Topiniz…)


“Che brutti!, diceva la pecora. Se almeno avessero i riccioli come me…”


E tutti, da soli o in compagnia, si facevano delle matte risate alle loro spalle. “Sono proprio bestie inutili, dicevano, e antipatiche. Chissà a cosa pensava il contadino quando li ha messi nel suo cortile!”.

Mamma Topiniz diceva sempre ai suoi Topini: “Non badate a loro, fate finta di niente e andate per la vostra strada. Sono solo vicini invidiosi.”
“Va bene, mamma”, dicevano i topini, ma sotto sotto erano molto tristi e un po’ depressi. La mamma che sapeva quanto fossero allegri e servizievoli quando erano nel loro ambiente, non ne poteva proprio più della cattiveria dei vicini e un giorno disse a Papà Topiniz:

“Caro, fammi un favore: quando hai tempo e voglia, scava un’altra galleria che esca dalla nostra casa in un punto diverso da quella che usiamo ora e che porta i nostri piccoli in mezzo a quegli animali maleducati e cattivi”.

“Molto volentieri, cara”. Detto fatto, papà Topiniz andò a prendere una vanga e una pala, scelse un posto adatto e si mise al lavoro. Pochi giorni dopo il nuovo tunnel sbucò alla luce del sole. Quale fu lo spavento del Signor Topiniz quando si vide di fronte un enorme cagnone! Aveva denti grandi quasi quanto lui e aguzzi, non vi dico quanto! Al Signor Topiniz sembrò alto quanto gli alberi intorno! Ma lui era un topino coraggioso: “Buongiorno Signor Cane, disse. Piacere di conoscerla. Mi chiamo Topiniz, ho una compagna e sette bei e bravi topini. Siamo una famiglia tranquilla e non la disturberemo affatto.”



“Sono felice di fare la sua conoscenza e di avervi come nuovi vicini. Non mi disturberete”, disse il cane enorme. Papà Topiniz, rassicurato, infilò la galleria e tornò dalla sua famiglia portando buone notizie: “Ho trovato un cane in fondo alla galleria che ho scavato. Venite a fare la sua conoscenza”. Mamma e figli si lavarono si pettinarono e uscirono a conoscere il nuovo vicino.

Un po’ si spaventarono a vedere le sue dimensioni, ma era così gentile che tornarono a casa rinfrancati. Solo Papà Topiniz si fermò un momento e disse al cane. “La ringrazio di avere accolto così bene la mia famiglia. Mi considero suo debitore e se mai un giorno avrà bisogno di me, mi chiami. Verrò subito in suo aiuto”.
Il cane sorrise e non disse nulla: gli sembrava impossibile che un animaletto così piccolo potesse venire in suo aiuto, lui così imponente e dall’aspetto feroce. Ma  non volle umiliarlo e si limitò a dire educatamente grazie.



I topini erano felici: uscivano quando volevano, salutavano il loro nuovo amico e andavano a giocare nei dintorni. Anche la mamma e il papà erano tranquilli, provvedevano al buon andamento della casa e dei figli e il buon umore tornò nella tana della famiglia Topiniz.

Ma un giorno, anzi una notte, mentre tutti dormivano si sentirono dei lamenti. Erano insistenti e molto forti e papà Topiniz capì subito che doveva essere capitato qualcosa al loro amico cagnone. Scesero dai loro letti e si precipitarono fuori, verso il punto da cui provenivano i lamenti. E trovarono una scena penosa: il loro amico era impigliato in una grande rete, di quelle che servono a tirar su le balle  di fieno alla fine dell’estate.

Da quando si era impigliato aveva tentato di liberarsi, ma aveva fatto peggio: praticamente non riusciva più a muoversi tanto la rete si era intricata intorno a lui.
“Ci pensiamo noi”, disse papà Topiniz. Andò a cercare le cesoie più grosse che aveva, mamma Topiniz prese il grosso coltello da cucina  e i piccoli le forbicine che avevano il permesso di usare. 

Si misero subito al lavoro. Taglia di qua, trancia di là, sciogli un nodo di su e un groviglio di giù, sudavano tutti, ma non mollavano. Il cane non credeva ai suoi occhi: sentiva che la corda si smollava piano piano e vedeva che era merito di quei piccoli animaletti per i quali non avrebbe dato un soldo. E quando spuntò l’alba il cagnone era liberato. I topini distrutti dalla stanchezza, ma felici di aver liberato il loro amico, raccolsero i loro arnesi e si diressero verso la loro tana per farsi una bella dormita anche se era giorno.
“No, no. Un momento…, disse il cagnone. Venite tutti qui e saltatemi in groppa”. I topini non capivano perché, ma obbedirono. Si aggrapparono al folto pelo del cane: da terra praticamente non si vedevano, tanto erano piccoli, papà e mamma compresi, ma tutti gli animali del cortile che si stavano svegliando li videro eccome!



 “Guarda la famiglia Topiniz! Hanno fatto amicizia con il cagnone!  Faremo bene a rispettarli prima che il loro nuovo amico ci dia un bel morso!”  (in realtà non aveva mai morso nessuno, ma bastava un’abbaiata per spaventare tutti gli animali della fattoria e anche dei dintorni).

Da quel giorno nessuno rise più delle dimensioni dei piccoli roditori. La famigliola non fu più disturbata da nessuno e i piccoli crebbero felici con i loro genitori. Quando il cagnone era in vena li portava a spasso, a conoscere i dintorni, o li curava quando giocavano mentre la mamma era occupata in cucina. 


Aurora e il crisantemo (Giappone)


Giappone


Questo racconto viene da molto lontano, dal Giappone di tanti tanti anni fa.
In una casetta in riva al mare viveva una bambina di nome Luce-Prima-dell’Alba, che tradotto in italiano corrisponde ad Aurora. Con lei c’era la mamma, che le voleva molto bene naturalmente, tanto da colmare il vuoto lasciato dal papà. Lui era un grande guerriero ed era sempre lontano da casa in missione.



La casina di Aurora non era molto grande, ma la mamma se ne prendeva sempre cura con molto amore. E davanti alla finestra c’era sempre una piantina con un fiore per salutare il papà ogni volta che tornava a casa. Aurora sentiva la sua mancanza, ma sapeva che era molto importante che lui stesse sempre di guardia a scrutare il mare per difendere il suo paese in caso di attacco di eventuali nemici.




Mamma e figlia vivevano sempre allegre ed erano protette dalla fata-madrina del focolare, che si prendeva cura di loro quando ne avevano bisogno. Vicino alla piantina sul davanzale c’era sempre una ciotolina piena di biscotti o di frutti per la fata-madrina, che apprezzava queste attenzioni e non faceva mai mancare la serenità e l’allegria nella casetta.



Ma un giorno la mamma di Aurora si ammalò. La bambina naturalmente la curava e seguiva scrupolosamente le indicazioni del dottore, che le aveva prescritto le medicine adatte a risolvere il problema. Malgrado le attenzioni e le cure, la mamma non migliorava, anzi stava sempre più male e mamma e figlia cominciarono a pensare al peggio. La bimba pensò di chiamare il padre, ma era piccola e non sapeva ancora scrivere né aveva l’indirizzo della sua guarnigione. Pensò quindi di ricorrere alla fata madrina e si appostò vicino alla ciotolina per vederla e parlarle.
Non dovette aspettare a lungo. Presto la sua protettrice arrivò: “Conosco il tuo problema, Aurora. Purtroppo non posso fare molto per voi. Ma per la vostra gentilezza, per tutte le cose buone che mi avete lasciato sul davanzale in questi anni, per i tuoi sorrisi e la tua gioia, voglio farti un regalo. La tua mamma guarirà. Vedi la piantina che avete sul bordo della finestra? Ebbene lei vivrà per tanti anni quanti sono i petali del fiore”.
La piantina era lì. Aurora la guardò attentamente e vide che aveva cinque petali. “Ma sono pochissimi!” si disse. Come fare? Le venne un’idea: corse a prendere la scatola dove la mamma conservava i fili per cucire, prese la forbicina, poi prese la piantina e con infinita cura e attenzione si mise a tagliare i petali a striscioline lasciandoli attaccati al cuore del fiore. Passò tutta la notte sveglia a lavorare e la mattina, quando la casa si illuminò con il primo raggio di sole, il fiore aveva tanti petali che non si riusciva a contarli.


La mamma aprì gli occhi, fece un largo sorriso, si alzò dal letto e andò a preparare la colazione come aveva fatto per tutta la vita, prima di ammalarsi. Aurora capì che la mamma era guarita e che aveva davanti a sé tanti anni da godere.



Era nato il crisantemo, un fiore con tantissimi petali. Da allora è diventato il fiore nazionale del Giappone. E’ stato messo nello stemma imperiale e simboleggia pace, nobiltà e lunga vita. Adesso che conosciamo la storia di Aurora, non vediamo più il crisantemo come il fiore dei morti, ma come un buon auspicio per un futuro lungo e sereno.


















Gavino e Mafalda (Sardegna)

Gavino e Mafalda


Gavino è uno splendido esemplare di tortora. Vive qui a Carbonia, da sempre, in via Dalmazia. La sua famiglia ha la sua casa in un albero del viale: non è sempre gradevole perché c’è molto traffico, bisogna fare attenzione a non attraversare la strada nelle ore di punta, non scendere a beccare briciole quando passano bambini che lo rincorrono e lo costringono a complicati slalom fra le persone e le automobili e non si deve decidere di fare un riposino in certe ore a causa del forte rumore.


Da qualche giorno, durante uno dei suoi voli esplorativi in altri quartieri, Gavino ha incontrato Mafalda, una tortora bellissima, che se ne stava su un filo del telefono ad osservare il mondo intorno a lei. Le prime volte non osava rivolgerle la parola, gli sembrava troppo bella e troppo distante, ma poi un giorno la sentì cantare con una voce bella quanto lei una canzone allegra e decise di farsi avanti: la salutò. Si presentò, le disse dove abitava e le raccontò che stava facendo un giro di esplorazione per vedere posti nuovi. Mafalda fu contentissima di averlo conosciuto, gli disse che le piaceva stare sul filo del telefono perché c’era uno splendido panorama e perché  lassù nessuno la disturbava. 

Per un po’ Mafalda e Gavino volarono insieme alla scoperta della città. La sera poi andavano sulla Passeggiata per i Concerti del Tramonto nei quali si esibivano i Passerotti del Quartiere. Stavano proprio bene insieme e decisero di costruire il loro nido. Salutarono le loro famiglie e si sistemarono fra i rami della splendida buganvillea color fuxia tutta in fiore di nonna Assunta.



Molto presto Mafalda depose quattro uova e si accinse a covarle, curata e coccolata da Gavino che non vedeva l’ora di essere Papà. La mattina, dopo averla accudita, volava in giro a cercare cibo per Mafalda e le portava tutte quelle cosine squisite che le piacevano e che le permettevano di passare il tempo della cova in modo più gradevole. Anche nonna Assunta metteva sul davanzale le briciole del pane e qualche volta anche dei biscotti. 



Dopo un tempo ragionevole nacquero quattro tortorelle, due femmine e due maschi. Non vi dico la gioia dei genitori! Sembrava loro di aver raggiunto la felicità.

Ma nella vita le difficoltà ci sono per tutti: nella nostra, come in tutte le storie, il cattivo era in agguato. Si trattava di Fulvo, il gattone del Signor Ernesto, il vicino di casa di Nonna Assunta. Appena le tortorelle misero il capino fuori dall’uovo, Fulvo si appostò in posizione strategica per mangiarseli alla prima occasione. 



Gavino però vegliava e quando si rese conto che il momento si faceva particolarmente difficile, disse a Mafalda: “ Carissima Mafalda, dobbiamo affrontare la situazione con coraggio e un po’ di furbizia perché l’avversario è molto più grosso e cattivo di noi. Tu mettiti tranquilla nel nido, di’ ai piccoli di non parlare assolutamente per far finta che non ci sia nessuno. Al resto penso io: sta’ tranquilla, tornerò presto.” “Fai attenzione, mio caro Gavino, ti voglio bene e senza di te non saprei vivere. Ormai abbiamo famiglia e dobbiamo essere molto responsabili”.

Gavino scese dal nido e non appena i piccoli cessarono di chiacchierare si mise a svolazzare davanti al naso di Fulvo. Al gattone non parve vero di avere una tortora così cicciottella come pranzo e fece per prenderlo. Gavino volò un po’ più in là. E Fulvo con un balzo lo raggiunse. O meglio, credette di averlo raggiunto, perché Gavino era nel frattempo volato ancora più in là. E un voletto dopo l’altro lo allontanò dal nido. Ma non bastava: la casa di Fulvo era troppo vicina al loro nido e occorreva dargli una lezione che non dimenticasse facilmente. 

Nei sui voli di esplorazione Gavino aveva adocchiato una siepe non troppo lontana: si diresse a piccoli voli verso di essa. E il gattone Fulvo dietro. Arrivato alla siepe Gavino si alzò in volo e Fulvo, con un balzo che doveva permettergli di afferrare la tortora, finì in pieno nella siepe. Dimenticavo di spiegarvi che si trattava di una siepe di fichi d’india, tipiche delle nostre isole, con delle spine lunghe così e tanti frutti con spinette piccole piccole molto penetranti.


Non vi dico in che stato ne uscì! Miagolando come un disperato, pieno di spine dappertutto si trascinò fino a casa dove il Signor Ernesto dovette levargliele tutte una per una con una pinzetta… Ci mise una giornata intera e per dargli una lezione indimenticabile lo disinfettò con l’alcol  più forte che avesse. Mai più, mai più il gattone avrebbe inseguito una tortora. Non solo, raccontò a tutti i gatti dei dintorni la sua disavventura spargendo la voce che le tortore sono uccelli pericolosissimi e che bisogna evitarli con cura.

Gavino tornò sano e salvo al nido con grande gioia di tutti, anche di nonna Assunta, che per l’occasione preparò una bella infornata di squisiti biscotti.



Gavino e Mafalda vivono ancora nella buganvillea. Hanno avuto tanti uccellini che ora sono cresciuti e che hanno costruito i  loro nidi nei dintorni. Ogni tanto vanno a trovare i genitori e i loro figli si fanno raccontare dal nonno la sua bellissima e pericolosa avventura. La sera poi tutti si ritrovano ai Concerti della Passeggiata.     


sabato 12 novembre 2011

Carlotta delle farfalle




Carlotta delle farfalle




Carlotta era una bambina vivace, intelligente, con due occhi brillanti e una folta capigliatura di un bel rosso vivo. Carlotta viveva nella periferia di una grande città vicino ai giardini, dove andava a giocare quando aveva finito i compiti. Un giorno, mentre scendeva dallo scivolo, vide una bellissima farfalla che volava allegramente fra i fiori delle aiuole. E vide anche un bambino che le correva dietro per prenderla. Le farfalle sono insetti delicati e spesso basta sfiorarle per ucciderle: Carlotta non poteva permettere che una cosa simile succedesse. Scese velocemente dallo scivolo. Allargò le braccia e si mise in mezzo fra la farfalla e il bambino, impedendogli di farle del male.

Lo distrasse per un attimo, il tempo necessario perché la farfalla volasse via. Non chiedetemi come, ma le sembrò che le facesse un sorriso prima di volar via, come per ringraziarla. Cose che succedono solo nelle storie.

 Ma Carlotta da quel giorno fece molta attenzione e ogni volta che vedeva una farfalla, la seguiva con lo sguardo o correndo vicino a lei fino a vederla in un luogo sicuro. Parenti e amici cominciarono a prenderla in giro, a dirle che perdeva il suo tempo con insetti inutili e a chiederle cosa pensava di ottenere da questo comportamento che tutti giudicavano assurdo. Carlotta  invece col passare del tempo si accorse che le farfalle, quando lei arrivava ai giardini, le venivano incontro e le svolazzavano allegramente intorno, creando un arcobaleno di colori vivaci e rallegrando i suoi giochi. Si sentivano al sicuro vicino a lei e sapevano che in caso di bisogno Carlotta le avrebbe difese da qualsiasi pericolo. E gli altri bambini che giocavano lì ai giardini, poco a poco, cominciarono a chiamarla “Carlotta delle farfalle”.

Ignoro tutto della biologia delle farfalle, ma ne so molto sulle loro leggende: ho appreso che esse vivono di petali di rosa. Anche Carlotta doveva aver letto gli stessi racconti, perché tutti i giorni arrivava ai giardini con un cestino di questo raffinato alimento. D’estate prendeva i petali nel giardino della sua Mamma e d’inverno, quando le rose non ci sono nei giardini, andava dalla fiorista vicino alla sua casa e raccoglieva quelli che cadevano dai mazzi pronti per essere venduti. Le scuoteva delicatamente un po’ e i petali cadevano da soli nel suo famoso cestino. La fioraia, che si chiamava Rosa (cos’altro avrebbe potuto fare una persona  gentile con quel nome?) era ben contenta di non buttar via quel “ben di Dio” e lo donava volentieri a Carlotta per le sue farfalle.

Quella stessa primavera cominciò a frequentare lo stesso giardino un’altra bambina. Si chiamava Mariangela.  Era stata una ragazzina vivace e allegra, ma aveva avuto un grave incidente: una moto l’aveva investita qualche tempo prima lasciandola per terra senza soccorrerla. Dopo lunghe settimane in ospedale il verdetto dei medici fu tristissimo: senza lunghe e faticose cure la bambina avrebbe seriamente rischiato di non recuperare l’uso delle gambe.  Mariangela era tornata a casa, ma la sua allegria era rimasta a terra, a quell’incrocio dove era avvenuto lo scontro con la moto. Non sorrideva più, niente la interessava. Mangiava pochissimo, rifiutava di curarsi, si lasciava soltanto portare in poltrona  a rotelle fino al giardino, ma non parlava con nessuno, nemmeno con la sua mamma, non voleva più vedere i suoi amici e piangeva spesso.


Carlotta la vedeva da lontano e si sentiva triste per lei. Avrebbe voluto aiutarla ma non sapeva cosa fare. Poi le venne un’idea. Visto che le farfalle le svolazzavano intorno dappertutto dove andava, decise di avvicinarsi a Mariangela per fargliele vedere.

Sulle prime la ragazzina sulla sedia a rotelle non si mosse. Poi pian piano cominciò a interessarsi a loro e quel giorno, prima di andar a casa sulle sue labbra spuntò un timido sorriso. E’ con molta emozione che il giorno seguente Carlotta si appostò per aspettare Mariangela e la sua sedia a rotelle.



E puntuale la ragazzina arrivò, con la sua mamma. Cercò con lo sguardo Carlotta e le sue farfalle. Erano tutte lì, e l’aspettavano. Il sorriso questa volta fu decisamente meno timido e la mamma spinse la sedia verso il piccolo gruppo variopinto. Il ghiaccio era rotto.

Col passare dei giorni Mariangela cominciò a muovere da sola le ruote della sua sedia per stare vicina alle sue nuove amiche senza disturbare la sua mamma. Era così piacevole vedere tutti quei colori comparire e scomparire intorno a lei, posarsi sui fiori, sui cespugli, salire verso i rami degli alberi, scendere verso il laghetto delle trote. Malgrado il suo problema, era tornata ad essere la ragazzina allegra di una volta e la sua mamma cominciava a credere che il giorno in cui si sarebbe alzata e avrebbe ricominciato a camminare.

E così fu. Un bel giorno, per salutare più da vicino le farfalle, Mariangela mise i piedi per terra e appoggiandosi a Carlotta fece qualche passo. Passetti timidi, i primi…


Ora le due bambine corrono insieme alle loro amiche farfalle. La mattina vanno a scuola insieme, poi fanno i compiti e poi vanno al giardino. Nessuno prende più in giro Carlotta per le sue amiche e tutti si sono convinti che anche un piccolo insetto può diventare un amico prezioso. 





martedì 1 novembre 2011

La Zebra e la Scimmietta


Molto tempo prima che tutti noi venissimo al mondo vivevano in un paese lontano una scimmietta e una zebra. Erano amiche da sempre e nessuna delle due si ricordava quando la loro amicizia era nata.

La zebra e la scimmietta giocavano sempre insieme.


Quando la zebra voleva fare una galoppata nella pianura la scimmietta le saltava in groppa e insieme correvano a perdifiato. Quando la scimmietta voleva arrampicarsi sugli alberi e saltare da un ramo all’altro, la zebra guardava in su e le diceva: "Ti vedo! Sei vicino al casco di banane"


oppure: "Ti vedo, sei vicino a quel grande fiore bianco…"


La scimmietta portava alla zebra i frutti degli alberi più alti, che la zebra non avrebbe potuto raggiungere e la zebra era sempre pronta a portare la scimmietta dove voleva, anche molto lontano.

 Gli altri animali della foresta scuotevano la testa: non poteva durare un’amicizia del genere, la scimmietta e la zebra erano troppo diverse, ciascuna aveva le sue abitudini. Le altre zebre dicevano: "Cosa vai a fare con quell’animale, non vedi che ha quattro mani e neanche un po’ di criniera?..." Le altre scimmie dicevano: "Cosa vai a fare con quella zebra, non vedi che non ha neanche una mano e che non può arrampicarsi sugli alberi?"

La loro amicizia non privava le due della loro libertà: in una vera amicizia è molto importante che ciascuno mantenga i suoi spazi.  Alla zebra piaceva molto l’erba della pianura e pur sapendo che era pericoloso, perché c’era sempre il leone in agguato, andava spesso a fare le sue galoppate e laute merende. La scimmietta da parte sua adorava saltare da un albero all’altro, da una liana all’altra, le piacevano i manghi maturi e le banane e passava molto tempo in cima agli alberi.




E la zebra e la scimmietta continuavano ad essere vere amiche, a dispetto di tutto e di tutti.

Un giorno che la zebra stava brucando tranquillamente l’erba fresca, il leone la vide, sola in mezzo al prato e decise di farne il suo pranzo. Si appostò nei cespugli in attesa del momento propizio per slanciarsi fuori e sbranare l’incauta zebra. 





Ma la scimmietta vide dalla cima del suo albero la scena: non esitò un attimo e gridando e gesticolando tentò di avvertire la zebra. Questa si accorse del pericolo, ma il leone è troppo veloce e lei sapeva che avrebbe perso: si vedeva già fra le sue fauci.





Allora la scimmietta si precipitò giù dall’albero e saltando da una liana all’altra passò e ripassò sotto il naso del leone che si distrasse cercando di levarsela di torno. 



La zebra ebbe così il tempo di fuggire. L’aveva scampata bella, grazie alla sua amica che aveva rischiato la vita per salvarla.

Da quel giorno le zebre cominciarono a pensare che in fondo anche se le scimmie non hanno la criniera non è poi così grave e le scimmie furono molto orgogliose di sapere che se volevano potevano essere molto utili, anche grazie alle loro quattro mani. E tutte vissero meglio, essendosi accorte che potevano contare le une sulle altre nel momento del pericolo.